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Sputtanamenti e prese di distanza: una piccola storia ignobile

Si potrebbe fare un pezzo giornalistico un po’ tirato a casaccio. Si potrebbero usare delle parole captate tra i rumori di uno sferragliante treno in corsa. Si potrebbe titolare un po’ forte, e dire che un vescovo ha augurato la morte a un papa. Così. Per vedere di nascosto l’effetto che fa.

Forse alla fine è stato solo questo che ha mosso il bollettino delle procure, alias Il Fatto Quotidiano, a sparare in prima pagina un pezzo su Mons. Luigi Negri, arcivescovo di Ferrara, che avrebbe – niente meno – augurato la morte a Sua Santità. È stato un divertimento, per combattere la noia di un giornale che altrimenti sarebbe stato costretto a titolare su vicende che francamente non interessano a nessuno. C’era solo un aereo russo abbattuto ai confini della Turchia, quel giorno, e il rischio di una terza guerra mondiale. No, roba da specialisti. Meglio un vescovo pazzo.

Bisogna metterla sul ridere. Perché a essere seri non c’è nulla, assolutamente nulla che possa giustificare un pezzo giornalistico di così infimo valore come quello che mister Travaglio ha deciso di sparare in prima pagina su monsignor Negri e le sue presunte affermazioni a riguardo di Papa Francesco. La foga da origliatori che ormai è la cifra distintiva del giornalismo alla Travaglio e compagnia non ha più freni. Cercare notizie, selezionarle, capirle e approfondirle è ormai roba d’altri tempi. L’obiettivo del glorioso giornalismo d’assalto dei nostri giorni è trovare il modo di sputtanare qualcuno.

È presumibile però che lo sputtanamento questa volta non vada a buon fine. Monsignor Luigi Negri non dà l’idea di essere una femminetta spaventata da questo attacco. In un primo momento ha reagito da pastore, assicurando i suoi fedeli e rinnovando (come sempre ha fatto nelle pubbliche dichiarazioni, che sono le uniche che contano) la sua totale obbedienza al Santo Padre. Quella era la priorità. In un secondo momento, poi, con calma ha sparato le sue cartucce: «La preoccupazione di rivolgere primariamente alla mia chiesa un messaggio di chiarimento non può prescindere da una seconda, doverosa e necessaria azione nei confronti di chi ha così gravemente leso la mia dignità umana ed ecclesiastica e anche quella della chiesa». Secca la smentita, e duro il giudizio contro il giornale: l’arcivescovo parla di atteggiamento «profondamente scorretto», di frase «mai pronunciata», di «arbitraria interpretazione» delle sue parole.

Al di là di ogni considerazione, e anche al di là delle opinioni che ognuno può avere sulla persona e sul pensiero di Monsignor Luigi Negri, è del tutto evidente che non si può che stare dalla sua parte in un caso del genere. Nulla autorizzava il giornale a pubblicare quell’articolo. Certo, non è vietato a un giornalista basarsi su frasi sentite, ci mancherebbe. Ma costruire l’articolo attribuendo con certezza a una persona frasi di questa gravità, senza la verifica col diretto interessato, è fuori da ogni regola. Imbarazzante poi la giustificazione contenuta nel pezzo: avrebbero contattato l’arcivescovo alle 21 e 30 della sera (la presunta intercettazione data a un mese prima) per sentire la sua versione, ma purtroppo era impegnato. Ridicoli. Per non parlare poi delle farciture su Papa Bergoglio e sul suo dover «allontanare i mercanti dal tempio», affermazioni nemmeno degne di un commento.

C’è però un altro dato che stupisce in questa vicenda, ed è la lettera che l’ufficio stampa di Comunione e Liberazione ha ritenuto di dover mandare al giornale, prendendo le distanze dalle parole dell’arcivescovo (che però a quanto pare non sono mai state pronunciate). Anzi, sarebbe meglio dire: prendendo le distanze dalla persona dell’arcivescovo. Un gesto immotivato. L’ufficio stampa di un’organizzazione interviene se quella organizzazione viene chiamata in causa. Ciò che non era accaduto nell’articolo. Certo, si parlava di Monsignor Negri come di persona cresciuta nel movimento di CL, come tutti ben sanno. Il che però non motiva affatto l’intervento. Come dire: se domani un giornale parlasse di me come di un farabutto, e ripercorrendo la mia storia dicesse che sono tifoso del Torino, farebbe sorridere se il Torino Calcio emanasse un comunicato per tutelarsi.

La lettera dell’ufficio stampa di Comunione e Liberazione non ha dunque alcuna giustificazione in termini comunicativi. E allora ci si chiede: era proprio necessario prendere le distanze da un arcivescovo, per di più in un momento in cui riceveva un attacco con tutta evidenza scorretto e inaccettabile? Farsi da parte quando un compagno di strada viene preso di mira dal nemico per non sporcarsi col suo sangue è un gesto che francamente non fa onore, a prescindere totalmente dal giudizio che si può avere su quel tal compagno o dal livello di prossimità umana e di pensiero con lui. Gli estensori di quella lettera e Monsignor Luigi Negri sono compagni di strada a tutti gli effetti, in quanto tutti appartenenti alla comunità cristiana, alla Chiesa. Non che fosse necessario intervenire pubblicamente per difendere Negri, questo no. Ma intervenire in quel modo è stata una scorrettezza. Non lo richiedeva l’articolo di giornale; non lo consigliava la comunione ecclesiale, che sempre deve venir prima di ogni altra considerazione. Titoli come «Cl scarica Mons. Luigi Negri» non sono, in termini di accreditamento di immagine, un gran guadagno per il movimento di Comunione e Liberazione. Se quello era l’intento della lettera, l’errore allora è doppio: nelle intenzioni (sbagliate) e nell’effetto ottenuto (inutile se non dannoso). Se addirittura invece le motivazioni affondano in personali rancori o altre questioni di tal genere, allora sospendiamo pietosamente il giudizio.

Ai cristiani e agli uomini di Chiesa non viene chiesto di essere dei bravi ragazzi. Non è scritto da nessuna parte. È chiesto di mostrare, con la propria unità, la presenza di Dio tra noi. Quella lettera (che è una pubblica dichiarazione, non una parola privata captata e storpiata) è invece un testo che crea divisione. E questo è un male.

Insomma: una brutta vicenda, fatta da una parte di brutto giornalismo e dall’altra di brutta comunicazione. In mezzo, l’arcivescovo di Ferrara e abate di Pomposa, l’unico a uscire a testa alta da questa triste storia.

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L’Islam e quella piazza deludente

La piazza degli islamici che dovevano manifestare contro il terrorismo si è rivelata un flop. Certo, rimane l’aspetto simbolico, il significato del gesto, come molti si sono premurati di precisare. Altri poi dicono che ci sono stati diversi fattori che hanno nuociuto alla buona riuscita della manifestazione, e anche questo è vero. E poi il mondo islamico non è ben organizzato come la Chiesta cattolica. E tanto altro ancora.

Ma il dato resta. La manifestazione di sabato 21 novembre per radunare il mondo islamico italiano nelle piazze di Roma e Milano al fine di dire un ‘no’ secco al terrorismo è stata una delusione. O meglio: è stata l’immagine plastica dei tanti problemi irrisolti nella comunità islamica, e che i difensori a oltranza dell’Islam moderato come prima vittima dell’Islam estremista non riescono a guardare in faccia con la giusta attenzione e il dovuto realismo.

Invece quei problemi ci sono. E non riguardano solo l’aspetto quantitativo della scarsa affluenza alla manifestazione, così come sbandierato dall’opposta e ugualmente ideologica fazione di chi parla dell’Islam come di un’esclusiva accolita di bastardi terroristi.

Il problema è innanzitutto qualitativo. L’Islam deve fare un vero e proprio salto di qualità, e superare tutte quelle ambiguità e quelle falsità che la piazza di sabato ha messo in luce.

Un esempio che possa chiarire. Guardando i cartelli esposti dai manifestanti saltavano all’occhio molte frasi o fuorvianti o povere di significato. Già il motto «Not in my name» è di scarsissima efficacia: sembra più un lavarsi le mani, che un voler prendere di petto la situazione con un’assunzione di responsabilità e una voglia di cambiare le cose. Per non parlare poi dei cartelli «No al terrorismo, sì alle moschee»: nel momento in cui è necessario un chiarimento, si mette invece sul piatto una rivendicazione. E lo si fa spostando sul piano politico-amministrativo quello che invece è un problema profondo, di carattere culturale e religioso. Senza poi considerare che, come tutti ben sanno, nei paesi vittima degli attacchi terroristici (come la Francia) da tempo proliferano le moschee. Che pertanto non rappresentano affatto un argine al fenomeno, semmai il contrario.

Ma forse quelli più significativi di tutti erano i cartelli che riportavano una pseudo-citazione dal Corano: «Chi uccide un uomo uccide l’umanità intera». Una frase assai nota, già usata in diverse circostanze pubbliche dai difensori dell’Islam, e che rimanda al versetto 32 della Sura 5, la «Sura della mensa».

Si tratta però, come detto, di una storpiatura. Il testo corretto recita infatti così (cito dall’edizione Rizzoli con traduzione di Alessandro Bausani): «Per questo prescrivemmo ai figli d’Israele che chiunque ucciderà una persona senza che questa abbia ucciso un’altra o portato la corruzione sulla terra, è come se avesse ucciso l’umanità intera. E chiunque avrà vivificato una persona sarà come se avesse dato vita all’umanità intera». Come risulta subito chiaro, la non uccisione non è un dato assoluto, ma è condizionato da una precisa clausola: vale solo nei confronti di chi non abbia ucciso o portato corruzione. Un versetto già abbastanza chiaro nel suo significato letterale, sempre che lo si voglia citare per intero; e che per di più è stato così spiegato dal Seguace del profeta Maometto Sa’id ibn Jubayr: «Chi si permette di versare il sangue di un Musulmano, è simile a chi si permette di uccidere tutta l’umanità. Chi impedisce di versare il sangue di un solo Musulmano, è come chi impedisce lo spargimento di sangue di tutta l’umanità». La restrizione relativa agli uomini che non portano corruzione nel mondo coincide così con l’identificazione degli uomini di religione musulmana. Come possiamo bene vedere, si tratta dunque di un passo per nulla rassicurante.

L’esempio è dunque rivelatore. Non si tratta semplicemente di una precisazione erudita, per falsificare la validità dello slogan. Il punto è un altro: non è barando sul testo del Corano che i musulmani possono riconquistarsi una credibilità che per forza di cose il dilagare del terrorismo di matrice islamica ha incrinato. L’esempio mette in luce quel tentativo di fare un brutto compromesso al ribasso, dove gli occidentali chiedono agli islamici di essere più all’acqua di rose (cioè di de-islamizzarsi un po’ come loro si sono scristianizzati) e gli islamici moderati dal canto loro fingono un Islam che non c’è, e che pertanto lascerà sempre spazio aperto agli integralisti che rifiutano di essere rappresentati da chi nemmeno cita il testo sacro in maniera corretta.

Da parte occidentale l’errore è duplice: o si ritiene (e si afferma con modi spesso approssimativi e volgari) che l’Islam sia solo violenza, negando la possibilità che ci siano persone che vivano la loro religiosità in maniera autentica dentro l’alveo del messaggio proveniente dal Corano; oppure si ritiene che l’Islam fondamentalista sia frutto di un ”eccesso di fede”, sanabile solo con un abbassamento della pretesa religiosa, prodromo del medesimo fenomeno che in occidente ha portato alla scristianizzazione. Grave errore, quest’ultimo. Perché il fondamentalismo non nasce affatto dove c’è troppa fede, ma dove ce n’è troppo poca: è un’ideologia di stampo politico che colma un vuoto religioso. Il fanatico non è una degenerazione del santo: è una degenerazione del tiepido, che non trovando le proprie ragioni nella religione le cerca nell’ideologia.

A tutto questo l’Islam non può rispondere spacciando un Corano a buon mercato. Deve lavorare per dimostrare la forza religiosa del messaggio coranico, e testimoniare la possibilità di vivere autenticamente il proprio senso religioso nel rispetto di un Islam non falsato. A prescindere da quanto il messaggio di Maometto sia fededegno, è infatti evidente che persone di buona volontà nate e cresciute nel mondo islamico possano genuinamente rappresentare una religiosità vissuta in maniera piena e, pertanto, certamente positiva.

La strada del dialogo dunque è ancora lunga. E non bastano certo gli slogan di piazza per tracciare un percorso che è fatto invece di un serio lavoro, culturale e religioso, in cui in questo momento purtroppo né l’occidente né il mondo islamico sembrano seriamente impegnati.

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E chi prega per Parigi?

Pochi mesi fa eravamo tutti Charlie. E non era vero. Oggi preghiamo tutti per Parigi. E anche questo non è vero.

Chi sta veramente pregando? Chi dei tanti che si fregiano di questo nuovo slogan (#prayforparis) nella postmoderna forma dell’hashtag con cancelletto si è veramente chiuso nel proprio silenzio interiore e ha innalzato a Dio una preghiera?

Per carità, nessun disprezzo per i buoni propositi che stanno dietro a queste reazioni sentimentali. Normale che ci si senta un pochino coccolati nel dire parole dolci, nell’issare sulle proprie pagine pubbliche le bandiere protettive dello slogan di turno.

D’altronde la medesima falsità potremmo attribuirla a chi invoca l’urgenza, politicamente sacrosanta, di una risposta militare, ma lo fa maldestramente al grido di «ammazziamoli tutti», mentre la personale ipotesi di un impegno militare in prima persona non l’ha mai nemmeno lontanamente considerata.

Gli attentati di Parigi ci rivelano ancora una volta che il nostro mondo vive una profondissima crisi che è innanzitutto di autenticità. Parliamo di preghiera, e non preghiamo nemmeno per idea, mai. Parliamo di guerre e attacchi militari, e l’ipotesi di una seria formazione militare e di un impegno in prima linea ci spaventa come nessun’altra cosa al mondo. Passiamo dal «pray for Paris» (imperativo emblematico, «prega tu, che a me non va») al vecchio motto ironico «armiamoci e partite».

Il grande problema è che in Europa regna l’ipocrisia: pronunciamo parole a cui non crediamo, alziamo bandiere che non ci appartengono. Siamo visceralmente staccati da noi stessi. E siamo vulnerabili proprio per questo.

La politica dell’Europa e di tutto l’Occidente è naturale conseguenza di questa strutturale mancanza di autenticità. Non stupisce il fatto che nessun capo di Stato perda l’occasione di fare una dichiarazione pubblica in queste situazioni, dichiarazione ovviamente formale e del tutto inconsistente dal punto di vista del contenuto (e speriamo che questa volta ci risparmino almeno la pagliacciata del corteo, limitandosi alle banalità istituzionali). Sono parole e gesti vuoti, come è evidente a tutti.

Perché i capi di Stato lo sanno benissimo che di fronte a realtà come l’Isis non si può far altro che mettere in campo una forte, totale e vincente azione militare. In cuor loro lo sanno benissimo. Politicamente non esiste altra via, non prendiamoci in giro. Sono obbligati dal protocollo a pronunciare formule, ma non sono fessi. Lo sanno bene che l’Isis lo puoi solo o spaventare o annientare militarmente. La pace come totale assenza di utilizzo dei mezzi militari, anche di difesa, è pura illusione, perché esiste solo in un mondo in cui tutti condividono il medesimo anelito di pace. E questo non è il nostro mondo, né mai lo sarà.

E se dunque sai che l’utilizzo dei militari non lo puoi evitare, allora è veramente folle rimanere in mezzo al guado, e fare mezze guerre, mezzi interventi subito abortiti. Lo Stato islamico va massicciamente bombardato, senza esitazione. Punto. Tutti lo sanno, da Obama a Hollande. E invece hanno paura di passare per guerrafondai, e lanciano qualche bombetta che non spaventa nessuno, e che genera solo reazioni come quelle di questa notte a Parigi.

Lo scenario purtroppo è questo: facciamo ridere se parliamo di preghiera, perché non sappiamo né vogliamo pregare; facciamo ridere quando ci atteggiamo a vendicatori, perché non sappiamo maneggiare nemmeno un taglierino; facciamo ridere quando facciamo le guerre, perché le facciamo a metà per paura di sporcare la nostra immagine politica.

Il dramma dell’uomo moderno che si auto-costringe a indossare maschere è diventata la misura della nostra inutilità, come Europa e come Occidente intero. Diciamocelo in faccia chiaramente, cosicché la presa di coscienza dell’ipocrisia collettiva in cui siamo avvolti ci permetta poi di non guardare con disprezzo a chi propone strade di umanità autentica per ripartire e ricostruire. Una ricostruzione che passa quanto meno dal desiderio di una preghiera sincera, diversa da quella ipocrita e farisaica sbandierata sui social network; e che al tempo stesso non ha paura di ammettere che la politica ha la responsabilità di mettere in campo azioni di forza, quando con azioni di forza il tuo paese viene attaccato.

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La fuffa del complottismo anti-Bergoglio

Ormai non li ferma più nessuno, i teorici del complotto contro Francesco. Si era sperato che l’ultimo caso di corvi in Vaticano placasse il furore cospirazionista: le due persone arrestate non rappresentavano per nulla un fronte avverso al papa argentino, e pertanto il teorema del complotto vacillava non poco. Ma tant’è: un attimo di sconcerto iniziale, giusto il tempo di rielaborare i dati e incasellarli dentro lo schema prestabilito, ed ecco che all’indomani dell’Angelus tuonante di Papa Francesco il thriller torna più spietato che mai, e con accenti sempre più torbidi e inquietanti.

Il capolavoro supremo di questo filone letterario ”vatican-thriller” è sul quotidiano Repubblica, che lunedì 9 novembre supera tutti con un titolo degno del miglior 007: «Dai petrolieri ai tradizionalisti ecco la rete internazionale che trama contro Francesco».

Che la brutta e invisa genia dei tradizionalisti dovesse avere una parte rilevante nella cospirazione l’avevamo dato per scontato. Ma l’arrivo in loro soccorso niente meno che dei petrolieri americani, incazzati neri con Papa Francesco per l’enciclica ecologista, ci sorprende non poco, e rende il plot veramente unico nel suo genere.

«C’è un disegno sempre più chiaro nelle diverse fasi dell’operazione anti-Bergoglio», sentenzia sicuro il giornalista Marco Ansaldo, autore del thriller. E allora scopriamo che il disegno così chiaro e cristallino prevede un’operazione anti-Bergoglio iniziata, con mirabile preveggenza, sotto il pontificato di Benedetto XVI. Certo, come no: il caso del maggiordomo Paolo Gabriele non rappresenta altro che il prequel. Stupidi noi a non averlo capito. E nel prequel, l’obiettivo dei cospiratori era la rimozione del troppo potente Cardinal Bertone. Parola dell’informatissimo Marco Ansaldo. Ma soprattutto parola del giornale delfundador Eugenio Scalfari, l’uomo che vanta un’invidiabile confidenza col papa argentino.

Oibò, fermi tutti però: abbiamo detto Bertone? Lo stesso Bertone che rappresenterebbe l’opposto della riforma bergogliana? Lui con il suo attico e i suoi party super-vip? Come possono gli anti-Bertone essere i precursori degli anti-Bergoglio? Domande troppo sottili, forse. Inutile appesantire con tali quesiti la leggerezza del thriller. Meglio procedere spediti nella lettura, lasciarsi trascinare dalle suggestioni, dal fascino leggero e galoppante degli intrighi che si moltiplicano, si intrecciano, si infittiscono.

E arriviamo così nel giro di poche righe, che liquidano come semplice «destabilizzazione» le dimissioni di Benedetto, al climax: «La mossa che in alcuni ambienti [quali? Boh, alcuni] ha provocato la maggiore indignazione è stata l’enciclica verde Laudato si’, causa di malumori fra i conservatori e i petrolieri degli Stati Uniti». Proprio così: i conservatori e i petrolieri. Chi vuole, se non proprio nomi e cognomi, almeno qualche indizio succulento per sentirsi autorizzato a sussurrare a denti stretti l’identità di qualche colpevole rimarrà purtroppo deluso. Bisogna accontentarsi di questo: «Diverse organizzazioni influenti e vari gruppi all’interno di alcuni Paesi manovrano per far cadere Francesco». Boom! Tanto sono vaghi gli aggettivi sui mandanti, quanto preciso, circostanziato e non proprio di poco conto è l’obiettivo finale della manovra.

Insomma: fa veramente sorridere l’inconsistenza di certo giornalismo di maniera, ormai pronto a sfornare complotti a giorni alterni. Ma un livello così sfacciato di inconsistenza raramente era stato raggiunto. Nemmeno certi titoli ”sarzaniani” (nel senso di Fiorenza Sarzanini del Corriere, regina dei complotti all’italiana), come ad esempio «la rete gelatinosa di affari e amicizie», avevano mai raggiunto un tale livello di impalpabilità.

Come già detto in altre circostanze, la materia vaticana è ormai entrata nei favori di certo giornalismo d’assalto. Una Chiesa lacerata a causa dei cattivi conservatori che cospirano contro i buoni progressisti è ormai l’impianto narrativo dentro cui inserire qualsiasi tipo di ricostruzione, con banchieri, petrolieri e massonerie varie.

Piccoli romanzetti d’appendice, niente più. Il giornalismo è tutt’altra cosa. E, per inciso, anche la Chiesa è tutt’altra cosa.

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Scuola di Stato, una vecchia idea che non muore

Il malfunzionamento della scuola italiana è certamente all’origine di tante mancanze del nostro paese. E l’assenza del tema educazione all’interno del dibattito pubblico è a sua volta all’origine del malfunzionamento della scuola. Ha pertanto ragione, Ernesto Galli della Loggia, quando dalle colonne del Corriere denuncia il fatto che di scuola si parla solo per questione di politica sindacale, come precari, assunzioni e questioni consimili. Di quale sia il grado di istruzione e di educazione che viene data ai nostri ragazzi sembra non importare a nessuno; del numero di precari stabilizzati se ne fa invece un caso nazionale da cui può a volte dipendere la tenuta o meno di un governo.

Posta la correttezza della premessa, Galli della Loggia passa poi però a una disamina del problema educativo nel nostro paese in termini che hanno quanto mai l’aspetto della lotta di retroguardia. Due sono le linee su cui si muove il ragionamento dell’editorialista di via Solferino: da una parte l’accusa contro il ministro dell’Istruzione, che pare ignorare la vera condizione degli studenti italiani (incapacità di scrivere, di riassumere, di risolvere problemi matematici) e delle loro famiglie (difesa a oltranza dei figli, mancanza di rispetto per la figura dell’insegnante); dall’altra l’accusa contro i cattivi effetti dell’autonomia scolastica.

Il discorso non regge, e se posta in questi termini l’emergenza educativa è destinata a durare nei secoli. Finché si additano come soluzioni quelle che sono le cause del problema, infatti, la strada per una via d’uscita non verrà mai imboccata.

Il punto è innanzitutto l’invocazione dell’intervento ministeriale per la soluzione di problemi concreti relativi alle capacità di apprendimento dei nostri studenti. Finché pensiamo che il ministro dell’Istruzione possa dare un utile contributo al miglioramento delle capacità di scrittura dei nostri ragazzi, saremo sempre da capo. È proprio questa idea centralistica di istruzione nazionale che è all’origine della qualità scadente della scuola italiana. La scuola italiana non esiste. Esistono tante scuole, esistono le singole scuole. Ed esistono più in particolare le aule in cui si fa lezione, esiste il rapporto ogni volta diverso, particolare e straordinariamente affascinante tra il singolo professore e gli alunni che si trova davanti. Continuare a cercare soluzioni univoche che vadano bene per tutte le scuole, tutte le aule, tutti le fattispecie di rapporto docente-discente presenti sul suolo nazionale è proprio ciò che ha generato la condizione di degrado del nostro sistema di istruzione, ingabbiato in schemi teorici e preconcetti e pertanto costretto a un livellamento verso il basso, all’attestamento su un umiliante minimo comune denominatore. Galli della Loggia invoca questo intervento nazionale, centrale, ministeriale che è quanto di più dannoso si possa fare.

Conseguenza di questa posizione dell’editorialista è poi la seconda parte del suo ragionamento, e vale a dire il dito puntato contro l’autonomia scolastica. Fermo restando che l’autonomia in Italia non ha prodotto risultati, il punto è però che non li ha prodotti proprio perché si è trattato e si tratta tuttora di un’autonomia di facciata, una generica possibilità per i singoli istituti di intervenire su aspetti secondari, quando il cuore del sistema di istruzione rimane integralmente deciso a livello centrale. Galli della Loggia teme l’autonomia, quando invece l’autonomia – ma autonomia vera, comprensiva di sistema di valutazione e con conseguente libera concorrenza tra scuole e libera scelta da parte delle famiglie – è la strada da imboccare con convinzione per uscire dalle ragnatele del centralismo educativo che ha recato solo danni.

Se dunque il malfunzionamento della scuola origina i mali italiani, e la mancanza di attenzione al tema educazione origina a sua volta il male della scuola, bisogna amaramente concludere questa catena di concause aggiungendo il fatto che la disattenzione verso il problema scolastico è in parte generato dal fatto che chi prende voce su questo tema, come fa oggi sul Corriere Galli della Loggia, lo fa sprovvisto di adeguata conoscenza di come possa veramente funzionare un sistema scolastico. E così sopperiscono alla propria mancanza con generici riferimenti a categorie vecchie, ripercorrendo gli stessi errori del passato che ci hanno portato alla miseria presente. Il ministro Giannini, offesa, risponderà proponendo soluzioni. E il circolo vizioso continua.

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Mannino, la lezione che nessuno imparerà

L’assoluzione di Calogero Mannino è l’ennesimo episodio che mette in luce la leziosità del nostro sistema giudiziario; leziosità però giocata sulla pelle di persone, di esseri umani che pagano la loro presunzione di colpevolezza con anni o addirittura decenni di lotta kafkiana contro processi di oscura origine e al contempo di chiarissima fama. Processi somiglianti a donne belle che amano spasmodicamente mettersi in mostra, senza nulla considerare le conseguenze della propria esposizione. Un’esposizione purchessia. E nessuno che si faccia garante di chi in tutta questa esplosione di luci rimane per cattiva sorte schiacciato sotto qualche riflettore o luminaria cedevole.

Ma non c’è solo il problema del garantismo, il problema cioè di tutelare chi alla fine, se dimostrato innocente, e visto il lento e lungo trascorrere degli anni processuali, altro non può essere definito se non una vittima. Qui c’è di più. Perché i processi schiacciasassi come quello sulla presunta trattativa stato-mafia mettono in luce altro, che va al di là del mancato rispetto dei diritti dell’imputato e dell’ormai defunta e sepolta presunzione di innocenza.

È ormai sempre più conclamata la concezione divina che la magistratura ha di se stessa. In un’epoca di moralizzatori come la nostra, soprattutto qui in Italia, proprio qui dove la corruzione non diminuisce di un’unghia nel mentre in cui invece si infoltiscono le schiere di correttori della moralità pubblica, dall’archetipo pool di mani pulite all’epigona e triste figura di Raffaele Cantone, in quest’epoca il morso alla magistratura debordante non è più in grado di metterlo nessuno. E l’amaro episodio dell’assoluzione tardiva (ennesima assoluzione, per altro) di Calogero Mannino non sarà di lezione per nessuno. Proprio oggi, curiosa coincidenza, si apre un altro processo fatto di paroloni altisonanti e strappa-titoli: il processo su mafia capitale. Il costume dei processi simili a belle donne continua imperterrito e si veste di sempre nuove forme. La magistratura continua a comportarsi come una casta sacerdotale cui è stato affidato il compito da una nascosta divinità di raddrizzare e rimettere in carreggiata il nostro paese. Ma per farlo ha bisogno di consenso popolare, e questo si costruisce vestendo i processi di abiti sfarzosi, con parole di sicuro effetto come concorso esterno in associazione mafiosa, trattativa stato-mafia, mafia capitale. E schiere di giornalisti pronti a reggere la coda non mancano certo.

La magistratura non è politicizzata, come erroneamente ha detto la destra per tanti anni. La magistratura è al di sopra della politica, si sente al di sopra della politica. La coincidenza tra le posizioni della magistratura e quelle della sinistra è un problema successivo, secondario. Importante, vero, ma secondario. Il punto sta in quel sentirsi autorizzati a tutto, in nome di un compito alto, sacro, svincolato da ogni giudizio o responsabilità. Non gli si può chieder conto dei soldi impiegati, del tempo dedicato a quel tal processo mentre fiumi di (veri) delinquenti fanno ciò che vogliono impuniti o immediatamente prosciolti. Non hanno tempo, i sacerdoti della moralizzazione, di dedicarsi a vili reati, che ci rendono insicuri nelle nostre case o nelle nostre strade. C’è un paese da rimodellare. Bando a tutto il resto.

Per questo dico che il trattamento disumano riservato a Mannino non sarà di alcuna lezione. Perché nulla e nessuno riesce a scalfire quel presupposto di divina investitura che lascia i giudici operanti nel settore della moralizzazione pubblica su un piedistallo irraggiungibile. Mafie e para-mafie continueranno a pullulare, perché della sorte toccata a Mannino non gliene frega a nessuno. Mentre gli interessi che portano ad addobbare i processi di paroloni altisonanti continuano imperterriti. Arriverà il giorno in cui ci si fermerà, guarderemo indietro e faremo il conto: numero di processi, numero di persone date per colpevoli, numero di assolti. E il dato numerico renderà il senso di una brutta stagione del nostro paese.

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Il grande equivoco di chi vuole ”ripulire” la Chiesa

L’epicentro del terremoto che sta scuotendo il Vaticano, con l’ennesimo scandalo di corvi e delatori, è stato probabilmente rivelato, quasi apertis verbis, nel comunicato della Sala Stampa vaticana, all’indomani degli arresti di monsignor Lucio Vallejo Balda e di Francesca Immacolata Chaouqui: «Pubblicazioni di questo genere [in riferimento ai volumi in uscita Via Crucis di Gianluigi Nuzzi e Avarizia di Emiliano Fittipaldi, conditi con informazioni passate in segreto dai due arrestati] non concorrono in alcun modo a stabilire chiarezza e verità, ma piuttosto a generare confusione e interpretazioni parziali e tendenziose. Bisogna assolutamente evitare l’equivoco di pensare che ciò sia un modo per aiutare la missione del Papa».

Se dunque la vulgata giornalistica vuol far passare ogni scandalo vaticano come un tentativo di destabilizzare l’opera riformatrice di Papa Francesco, e lo abbiamo visto chiaramente durante il Sinodo, le stesse parole del comunicato ufficiale della Sala Stampa vaticana chiariscono che, lungi dall’arrivare da persone che vogliono far del male al Santo Padre, i fatti che scuotono in queste ore le sacre stanze hanno come origine proprio l’equivoco di voler in qualche modo servire il Papa e la sua missione. Come se fosse opera di servi troppo zelanti, che hanno male interpretato il mandato ricevuto.

Basti ricordare che monsignor Balda e la pr vaticana Chaouqui non erano stati messi al loro posto all’insaputa o contro il volere del Papa. Anzi: il loro essere membri della Commissione di inchiesta sulle finanze vaticane, istituita nel luglio 2013 da Papa Francesco, sembrava essere del tutto in linea con il desiderio di un vigoroso repulisti ”francescano” nella materia oscura dello IOR e delle realtà affini. E fin da subito c’era stato chi aveva guardato con grande stupore a queste nomine. Le palesi controindicazioni in materia di affidabilità non mancavano affatto, soprattutto per quanto riguardava la Chaouqui, già al tempo accreditata come fonte di notizie vaticane per il sito Dagospia.

Fermo restando che non si vuole credere che sia il Papa stesso a fare in prima persona nomine così palesemente sbagliate, il sospetto che emerge è che l’«equivoco» di cui parla la nota stampa vaticana sia molto diffuso e radicato nell’entourage dell’attuale pontefice. E sia in generale l’equivoco che anima tanti dei presunti o sedicenti ”bergogliani” che stanno ormai da tempo diventando più realisti del re. L’idea di ripulire e riportare l’ordine in Vaticano può essere una buona causa, ma può essere molto mal interpretata e portata avanti. Spesso, infatti, nella storia della Chiesa chi ha voluto maldestramente atteggiarsi a colui che scaccia i mercanti dal tempio ha finito col fare assai peggio degli stessi mercanti.

Al di là di queste considerazioni, l’esplicito e ufficiale riferimento a questo equivoco fa ben sperare per quanto concerne il suo pieno smascheramento e la sua conseguente correzione. La Chiesa non ha bisogno di guerre sante al suo interno, con schiere di moralizzatori pronte a diventare pericolosi bracci armati al servizio non si sa bene di chi. Così come l’equivoco della presunta lotta tra ”partito della dottrina” e ”partito della misericordia”, di cui già si è fatto cenno, anche la presunzione di servire la missione di Papa Francesco sparando a zero contro tutto ciò che viene visto come segno di un partito diverso dal suo non può che far del male al Papa stesso, e con lui a tutta la Chiesa. L’azione di correzione e se necessario anche di riforma deve sempre partire dalla consapevolezza che, almeno per quanto riguarda la Chiesa, il cambiamento è generato da un cambiamento di sguardo, da un cambiamento del cuore. Non da una ”mani pulite” vaticana. Quando nella Chiesa si cercano di applicare pedissequamente i metodi del mondo (a maggior ragione quando poi si tratta di metodi sbagliati anche per il ”mondo”), i disastri sono subito dietro l’angolo.

Finché si trattava di panzane sulla malattia del Papa, o di outing di monsignori in cerca di visibilità, era facile bollare tutto come oscure trame contro Papa Francesco. Ora che, di fronte agli arresti di Balda e Chaouqui, il teorema palesemente non regge più, si avrà l’occasione per riflettere con più pacatezza sugli errori commessi, e tornare a guardare con più serenità alla missione del Papa argentino. Che altro non è, e non può essere, che la stessa e identica missione che – accenti diversi a parte – la Chiesa porta avanti da duemila anni.

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«Sei cattolico, ergo non puoi essere imparziale»

Basterebbe a volte partire da una semplice e rigorosa analisi testuale, per rendersi conto di quanto nell’odierno dibattito culturale, soprattutto a mezzo stampa, le parole, i loro significati e i ragionamenti sottostanti (o che dovrebbero sottostare) non abbiano più alcun valore.

E allora buttiamoci in questo esercizio, armati di lapis rosso-blu e tanta pazienza, proprio come un bravo professore di liceo.

Testo da analizzare: articolo a firma Ilaria Sacchettoni, Corriere della Sera del 28 ottobre 2015. Si parla della sentenza del Consiglio di Stato in merito alla nullità della trascrizione nei registri comunali italiani dei matrimoni omosessuali contratti all’estero. Prendiamo volontariamente un articolo del Corriere, giornale che si presta ad essere considerato più super-partes, quasi istituzionale. Il gioco applicato a un articolo di Repubblica sarebbe fin troppo scontato, e poco divertente.

Vediamo il titolo: «No alle nozze gay: il caso dei giudici cattolici». Il ”tema”, ciò di cui si tratta, sarebbe il no alle nozze gay; quello che in linguistica si chiama invece il ”rema” (ciò che si dice di nuovo a proposito di ciò di cui si tratta) sarebbe l’esistenza di un caso, e tale caso sarebbe appunto la presenza di giudici cattolici nel collegio del Consiglio di Stato che ha emesso la sentenza di cui sopra.

Partiamo con un errore blu, cioè grave: non è vero che la sentenza sancisca un no alle nozze gay. Al Consiglio di Stato non era chiesto di pronunciarsi con un sì o un no su tale materia. Non è d’altronde di sua competenza. Il Consiglio di Stato, che giudica in materia amministrativa, ha dichiarato amministrativamente nulla l’azione di trascrizione di nozze omosessuali contratte all’estero, per il semplice motivo che non esiste ad oggi in Italia un riferimento legislativo a cui l’atto amministrativo in questione possa riferirsi per essere giustificato. D’altronde già tutta la vicenda era segnata da un errore di fondo: si diceva che il Tar aveva dato ragione ai sindaci a proposito delle trascrizioni. Falso. Il Tar aveva semplicemente sancito che non era prerogativa dei prefetti imporre l’annullamento di quelle trascrizioni. Una questione di compiti, non di merito.

Passando alla seconda parte, ci sarebbe poi il «caso» dei «giudici cattolici». I giudici cattolici costituiscono dunque un caso. Un caso di cui parlare, di cui occuparsi, su cui prendere posizione e, se necessario, provvedimenti. Chiediamo alla giornalista Sacchettoni se ha notizia di un impedimento, di una dichiarata inopportunità nel codice deontologico dei giudici in merito a una particolare appartenenza religiosa, o forse proprio relativa alla sola religione cattolica. Immaginiamo che la Sacchettoni, imbarazzata, risponderebbe che no, non ci sono impedimenti in tale senso. E allora specifichi meglio: dove sta il caso? Anzi, dove sta il problema? Perché il titolo pare insinuare che basta che un giudice sia cattolico per montare un caso giornalistico?

Va be’, passiamo oltre. Saranno esigenza redazionali. Gliel’avranno imposto quel titolo. Facciamo come i professori di manica larga: semplice errore rosso.

Passiamo all’articolo vero e proprio. Incipit: «Il sospetto di una sentenza ”di parte” si rafforza con il trascorrere delle ore. La decisione del Consiglio di Stato che sbarra la via alle trascrizioni locali di matrimoni gay celebrati all’estero potrebbe essere stata influenzata da singole convinzioni religiose». Fin qui non abbiamo nulla da dire. Aspettiamo la rivelazione: se un «sospetto» si è rafforzato «con il trascorrere delle ore», come in un buon thriller giudiziario, significa che queste ore trascorse hanno portato con sé almeno indizi, speriamo prove che chiariscano i passaggi in cui la sentenza è stata «influenzata da singole convinzioni religiose».

Proseguiamo ansiosi nella lettura e scopriamo quanto segue: «Il collegio dei giudici che ha dato ragione ai prefetti nell’annullamento delle trascrizioni è guidato da un numerario dell’Opus Dei, la società fondata da Josemaría Escrivá de Balaguer che promuove la militanza [sic!] religiosa anche attraverso severi [sic!] esercizi spirituali. Si tratta di Giuseppe Romeo, ex presidente del Centro Studi Torrescalla di Milano dell’Opus Dei. Mentre estensore della sentenza è Carlo Deodato, che nella bio su Twitter si definisce ”Giurista, cattolico, sposato e padre di due figli. Uomo libero e osservatore indipendente di politica, giurisdizione, costumi, società”».

Eh… quindi? Non sarà solo questo. Suvvia, non può essere solo questo. Sono cattolici, va bene. Due cattolici dichiarati. Due su cinque. Va bene. Ma lei, signora o signorina Sacchettoni, ci aveva detto due righe sopra che si rafforzava il sospetto che la sentenza fosse stata influenzata. Noi vogliamo sapere dove, in quali passaggi, quali sono i punti nel testo della sentenza in cui emerge l’influenza, l’errore o il sospetto errore giudiziario, il punto debole, l’argomento mancante, l’anello che non tiene. Dove, di grazia, dove?

Continuiamo a crederci e proseguiamo ulteriormente nella lettura dell’articolo: «Al mattino Angelino Alfano, che da ministro…». No, fermiamoci subito. Qui si sta cambiando argomento. Stiamo passando alla ricapitolazione dei fatti. Il famoso sospetto allora si limita a quanto già espresso, elementi in più non ce ne sono. Sono cattolici, quindi sono stati ipso facto influenzati. Ridiamoci sopra: magari uno dei due ce l’aveva anche fisicamente una bella influenza, quindi era di malumore. Doppiamente influenzato. E via con altre argomentazioni di questo genere.

Niente da fare. Tutto da stracciare. Facciamo che ci si iscrive a un bel corso di teoria dell’argomentazione, signora o signorina Sacchettoni. E insieme a lei lo faccia buona parte del mondo giornalistico italiano. Scrivere che una sentenza è influenzata perché ci sono due giudici che sono cattolici dichiarati è una scemenza. È un caso inventato. Soprattutto dopo anni che ci avete riempito la testa con l’imparzialità dei giudici contro gli attacchi della politica, e soprattutto di un politico.

Decidetevi, cari colleghi giornalisti e cari dottori del pensiero dominante. Scegliete una posizione sul tema dell’imparzialità dei giudici, e seguitela. Ma, soprattutto, imparate a ragione, ad argomentare, e a non dare per scontato che chi legge i vostri articoli sia un fesso.

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Sinodo, la falsa diatriba tra dottrina e misericordia

A guardare quanto accaduto sui giornali durante i giorni del Sinodo, verrebbe da concludere che la stampa farebbe meglio a non occuparsi di Chiesa. Materia troppo complessa, con troppe sfumature e troppe necessità di approfondimento. Spesso impossibile da semplificare, e pertanto a costante rischio banalizzazione. Significativo l’episodio finale: titoli pressoché unanimi nel dire che il Sinodo avrebbe sancito il sì per la comunione ai divorziati risposati, seppure con una votazione risicatissima. Peccato che la parola «comunione» nella Relatio finalis non sia nemmeno menzionata.

Si tratta solo di un esempio, parte integrante di una serie di episodi altrettanto sconfortanti. Si è partiti con gli squilli di tromba per il caso del sacerdote e teologo omosessuale con il suo outing in stile hollywoodiano; si è passati attraverso la maldestra notizia di una presunta malattia del papa; per arrivare infine al fantomatico «sì» a una cosa di cui non si fa parola alcuna.

Ma questi sono appunto episodi, espressioni esteriori di un errore di fondo, un errore di metodo che accompagna il modo con cui non solo la stampa, ma tutto il mondo culturale odierno guarda con passione estrema e a tratti morbosa i fatti interni della Chiesa. Un’attenzione che ha innanzitutto un rilievo quantitativo. Mai si era visto infatti un tale dispiegamento di giornalisti sui temi vaticani. Il sito collegato a La Stampa Vatican Insider, partito come sorta di blog collettivo di tre vaticanisti, conta ora la collaborazione di circa dieci firme. I notisti politici del Corriere della Sera diventano a giorni alterni anche notisti di cose vaticane. Il quotidiano La Repubblica, poi, sull’onda dell’entusiasmo para-mistico del fondatore Scalfari per Papa Francesco, dedica alle questioni ecclesiastiche una quantità di spazio mai vista prima. E soprattutto per quanto riguarda l’ultimo esempio, l’attenzione è sempre e solo rivolta a un obiettivo chiaro: vedere se effettivamente la Chiesa stia cambiando, se si stia o meno piegando ai dettami del mondo moderno, se stia o meno vincendo il gradito partito dei cosiddetti progressisti contro la perenne minaccia dei conservatori. E soprattutto se stia o meno vincendo Papa Francesco, che del partito dei progressisti viene considerato il rappresentante primo e, naturalmente, sommo.

Questa piega politica nell’interpretare i fatti della Chiesa è stata poi, negli ultimi mesi e sulla scorta di una parziale interpretazione del messaggio di Papa Francesco, tradotta in maniera ancora più erronea. Sempre più chiaramente ci si riferisce infatti a una sorta di ”partito della dottrina” contro il ”partito della misericordia”. Errore in cui cadono quasi tutti gli osservatori esterni, quale che sia la (finta) fazione per cui parteggiano. Ed è un errore che, però, in parte coinvolge anche la Chiesa, che naturalmente non è estranea nell’alimentare un tale clima di confusione.

L’errore è presto chiarito. La misericordia non implica un cedimento sulla dottrina, ma esattamente il contrario. È proprio chi non concepisce la misericordia nel suo valore profondo che è costretto a cedere sulla dottrina. Dottrina che consiste semplicemente nel chiamare oggettivamente le cose col loro nome. Per esemplificare: quando Gesù dimostra misericordia per l’adultera, impedendo che venga condannata, non giunge alla conclusione in seguito a un patteggiamento in merito al peccato della donna. Il suo perdono è un dono totalmente gratuito, che non implica alcuna giustificazione del peccato. Tant’è che, con amore, la guarda e le dice: «Vai, e non peccare più».

La misericordia viene meno quando vince il formalismo e il moralismo. Vittoria che ha due facce: da una parte non ammettere che il peccato sia compiuto, e quindi scandalizzarsi e condannare senza pietà chi se ne macchia; dall’altra, sempre e ugualmente un non ammettere che il peccato sia compiuto, e quindi giustificarlo dicendo che in fondo peccato non è. Scandalo e giustificazione appartengono alla stessa dinamica culturale, propria di chi non tollera che l’uomo cada, che non sia capace con le sue forze di vivere con coerenza. Non dimentichiamo che, come ha ricordato l’editorialista del New York Times Ross Douthat proprio in questi giorni, «in the New Testament the Pharisees allowed divorce; it was Jesus who rejected it». Vallo a spiegare a chi contrappone dottrina a misericordia…

Parlare dei fatti della Chiesa è insomma abbastanza complesso, e richiede una predisposizione al libero approfondimento della materia che raramente vediamo nei giornalisti, soprattutto di casa nostra. Se La Repubblica spara nei titoli il grande cambiamento con il «sì» alla comunione ai divorziati risposati, e poi Scalfari nella sua articolessa domenicale dice che in fondo la Relatio finalis è una vittoria ai punti dei tradizionalisti, vuol dire proprio che la confusione è totale. Confusione anche voluta, certo, non solo dovuta a mancata comprensione dei fatti. C’è evidentemente malafede in tutto questo. Vale pertanto il consiglio da cui siamo partiti: meglio forse non trattare nemmeno di cose di Chiesa sui giornali. O evitare almeno di farlo in prima pagina, dove si ha necessità di titolare banalizzando. I giornali non lo faranno, e andranno avanti come sempre hanno fatto. I lettori, almeno, sono avvisati.

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I bambini sono

Un bambino che parla davanti a una telecamera, e cerca impacciato di avventurarsi in argomenti difficili come Dio, la famiglia, l’omosessualità, la guerra e la pace non può che suscitare simpatia e tenerezza. E il film di Walter Veltroni I bambini sanno, in onda in questi giorni su Sky, porta a casa con facilità questo effetto di vicinanza, o riavvicinamento, tra il telespettatore e i bambini protagonisti del film.

È probabilmente l’unica cosa riuscita del lungometraggio firmato dall’ex politico; e a ben guardare, non è nemmeno questo un grande risultato. Difficilmente si può far così male da fallire anche sulla simpatia per un bambino che parla in telecamera. Per il resto, non c’è nulla che renda chiaro (almeno a un primo impatto) quale sia stato lo scopo di sottoporre a uno strano interrogatorio 39 fanciulli provenienti dalle parti più diverse d’Italia, o giunti in Italia dalle parti più diverse del mondo.

Il problema, come al solito, sta nella radice. Il problema (per il regista del film, non per i bambini, e nemmeno per noi che guardiamo) è che in realtà i bambini non sanno. Ed è questo il loro bello. I bambini non sanno: i bambini sono. E si lasciano amare per quello che sono. Non hanno bisogno di sapere per affermare il loro valore. Hanno la semplicità dell’essere in sé e per sé, senz’altro da aggiungere.

Il documentario di Veltroni vorrebbe invece banalmente convincerci del fatto che i bambini sanno, sanno tanto, e pur esprimendo il loro pensiero tra parole confuse sanno a volte anche più dei grandi. Un insegnamento da quattro soldi, elargito con un sorriso complice sulle labbra, come se il regista ci stesse disvelando chissà quale stravolgente e paradossale verità. È con questo sorriso sornione che il regista-intervistatore sottopone i malcapitati fanciulli alle domande più disparate, spesso domande difficili, che nessuno aveva mai rivolto loro. E il bambino, non sapendo, non può che rispondere disorientato, nella maggior parte dei casi prendendo in prestito le parole e le opinioni degli adulti, captate qua e là; le riprende storpiandole, spezzandole e ricomponendole in un ordine a lui più comprensibile, o almeno accettabile.

È per questo che il film non offre sostanzialmente nulla quanto a conoscenza di ciò che sono e come guardano il mondo i bambini. Perché è un film fatto per gli adulti, servendosi dei bambini per dimostrare una tesi: i bambini sanno già, quindi non c’è bisogno che gli si insegni nulla. Non c’è bisogno di educarli, col rischio di modificare la loro ingenua e già perfetta visione del mondo. Ognuno deve avere la sua visione, quella che viene così, istintivamente, come una risposta data di fronte a una telecamera accesa, che come un insegnante si aspetta che tu non faccia scena muta, e quindi qualcosa bisognerà pur dire. L’immagine che ne esce è perfettamente coerente col pensiero debole del regista ex-politico: un ventaglio di visioni diverse, che dissolvono e disgregano Dio, la famiglia e il mondo intero, secondo uno schema che piace molto più agli adulti che ai bambini.

Non mancano certo scene belle e toccanti all’interno del film. Si fosse pigiato meno il tasto sul sentimentalismo con le musiche patetiche di sottofondo, queste scene avrebbero forse potuto anche salvare il film intero. La scena reale di un bambino che per la prima volta vede il mare (e il confronto con vecchie scene di film, in primis I quattrocento colpi di Truffaut, riesce bene, rende l’idea che quella è invece realtà, non finzione), la sua gioia, le espressioni del suo volto, il sorriso largo e bellissimo: qui sta quel poco valore che il film ha.

E sarebbe bastato soffermarsi un attimo di più su questo aspetto, per rendersi conto che veramente il bello dei bambini è quello che sono, non quello che sanno. In fondo, non c’è stato bisogno di chiedere a un bambino le sue opinioni sul mondo perché venisse detta su di lui la cosa più grande che mai sia stata detta: che solo chi diventa piccolo come lui sarà il più grande nel regno dei cieli.

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