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Mannino, la lezione che nessuno imparerà

L’assoluzione di Calogero Mannino è l’ennesimo episodio che mette in luce la leziosità del nostro sistema giudiziario; leziosità però giocata sulla pelle di persone, di esseri umani che pagano la loro presunzione di colpevolezza con anni o addirittura decenni di lotta kafkiana contro processi di oscura origine e al contempo di chiarissima fama. Processi somiglianti a donne belle che amano spasmodicamente mettersi in mostra, senza nulla considerare le conseguenze della propria esposizione. Un’esposizione purchessia. E nessuno che si faccia garante di chi in tutta questa esplosione di luci rimane per cattiva sorte schiacciato sotto qualche riflettore o luminaria cedevole.

Ma non c’è solo il problema del garantismo, il problema cioè di tutelare chi alla fine, se dimostrato innocente, e visto il lento e lungo trascorrere degli anni processuali, altro non può essere definito se non una vittima. Qui c’è di più. Perché i processi schiacciasassi come quello sulla presunta trattativa stato-mafia mettono in luce altro, che va al di là del mancato rispetto dei diritti dell’imputato e dell’ormai defunta e sepolta presunzione di innocenza.

È ormai sempre più conclamata la concezione divina che la magistratura ha di se stessa. In un’epoca di moralizzatori come la nostra, soprattutto qui in Italia, proprio qui dove la corruzione non diminuisce di un’unghia nel mentre in cui invece si infoltiscono le schiere di correttori della moralità pubblica, dall’archetipo pool di mani pulite all’epigona e triste figura di Raffaele Cantone, in quest’epoca il morso alla magistratura debordante non è più in grado di metterlo nessuno. E l’amaro episodio dell’assoluzione tardiva (ennesima assoluzione, per altro) di Calogero Mannino non sarà di lezione per nessuno. Proprio oggi, curiosa coincidenza, si apre un altro processo fatto di paroloni altisonanti e strappa-titoli: il processo su mafia capitale. Il costume dei processi simili a belle donne continua imperterrito e si veste di sempre nuove forme. La magistratura continua a comportarsi come una casta sacerdotale cui è stato affidato il compito da una nascosta divinità di raddrizzare e rimettere in carreggiata il nostro paese. Ma per farlo ha bisogno di consenso popolare, e questo si costruisce vestendo i processi di abiti sfarzosi, con parole di sicuro effetto come concorso esterno in associazione mafiosa, trattativa stato-mafia, mafia capitale. E schiere di giornalisti pronti a reggere la coda non mancano certo.

La magistratura non è politicizzata, come erroneamente ha detto la destra per tanti anni. La magistratura è al di sopra della politica, si sente al di sopra della politica. La coincidenza tra le posizioni della magistratura e quelle della sinistra è un problema successivo, secondario. Importante, vero, ma secondario. Il punto sta in quel sentirsi autorizzati a tutto, in nome di un compito alto, sacro, svincolato da ogni giudizio o responsabilità. Non gli si può chieder conto dei soldi impiegati, del tempo dedicato a quel tal processo mentre fiumi di (veri) delinquenti fanno ciò che vogliono impuniti o immediatamente prosciolti. Non hanno tempo, i sacerdoti della moralizzazione, di dedicarsi a vili reati, che ci rendono insicuri nelle nostre case o nelle nostre strade. C’è un paese da rimodellare. Bando a tutto il resto.

Per questo dico che il trattamento disumano riservato a Mannino non sarà di alcuna lezione. Perché nulla e nessuno riesce a scalfire quel presupposto di divina investitura che lascia i giudici operanti nel settore della moralizzazione pubblica su un piedistallo irraggiungibile. Mafie e para-mafie continueranno a pullulare, perché della sorte toccata a Mannino non gliene frega a nessuno. Mentre gli interessi che portano ad addobbare i processi di paroloni altisonanti continuano imperterriti. Arriverà il giorno in cui ci si fermerà, guarderemo indietro e faremo il conto: numero di processi, numero di persone date per colpevoli, numero di assolti. E il dato numerico renderà il senso di una brutta stagione del nostro paese.

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