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Sinodo, la falsa diatriba tra dottrina e misericordia

A guardare quanto accaduto sui giornali durante i giorni del Sinodo, verrebbe da concludere che la stampa farebbe meglio a non occuparsi di Chiesa. Materia troppo complessa, con troppe sfumature e troppe necessità di approfondimento. Spesso impossibile da semplificare, e pertanto a costante rischio banalizzazione. Significativo l’episodio finale: titoli pressoché unanimi nel dire che il Sinodo avrebbe sancito il sì per la comunione ai divorziati risposati, seppure con una votazione risicatissima. Peccato che la parola «comunione» nella Relatio finalis non sia nemmeno menzionata.

Si tratta solo di un esempio, parte integrante di una serie di episodi altrettanto sconfortanti. Si è partiti con gli squilli di tromba per il caso del sacerdote e teologo omosessuale con il suo outing in stile hollywoodiano; si è passati attraverso la maldestra notizia di una presunta malattia del papa; per arrivare infine al fantomatico «sì» a una cosa di cui non si fa parola alcuna.

Ma questi sono appunto episodi, espressioni esteriori di un errore di fondo, un errore di metodo che accompagna il modo con cui non solo la stampa, ma tutto il mondo culturale odierno guarda con passione estrema e a tratti morbosa i fatti interni della Chiesa. Un’attenzione che ha innanzitutto un rilievo quantitativo. Mai si era visto infatti un tale dispiegamento di giornalisti sui temi vaticani. Il sito collegato a La Stampa Vatican Insider, partito come sorta di blog collettivo di tre vaticanisti, conta ora la collaborazione di circa dieci firme. I notisti politici del Corriere della Sera diventano a giorni alterni anche notisti di cose vaticane. Il quotidiano La Repubblica, poi, sull’onda dell’entusiasmo para-mistico del fondatore Scalfari per Papa Francesco, dedica alle questioni ecclesiastiche una quantità di spazio mai vista prima. E soprattutto per quanto riguarda l’ultimo esempio, l’attenzione è sempre e solo rivolta a un obiettivo chiaro: vedere se effettivamente la Chiesa stia cambiando, se si stia o meno piegando ai dettami del mondo moderno, se stia o meno vincendo il gradito partito dei cosiddetti progressisti contro la perenne minaccia dei conservatori. E soprattutto se stia o meno vincendo Papa Francesco, che del partito dei progressisti viene considerato il rappresentante primo e, naturalmente, sommo.

Questa piega politica nell’interpretare i fatti della Chiesa è stata poi, negli ultimi mesi e sulla scorta di una parziale interpretazione del messaggio di Papa Francesco, tradotta in maniera ancora più erronea. Sempre più chiaramente ci si riferisce infatti a una sorta di ”partito della dottrina” contro il ”partito della misericordia”. Errore in cui cadono quasi tutti gli osservatori esterni, quale che sia la (finta) fazione per cui parteggiano. Ed è un errore che, però, in parte coinvolge anche la Chiesa, che naturalmente non è estranea nell’alimentare un tale clima di confusione.

L’errore è presto chiarito. La misericordia non implica un cedimento sulla dottrina, ma esattamente il contrario. È proprio chi non concepisce la misericordia nel suo valore profondo che è costretto a cedere sulla dottrina. Dottrina che consiste semplicemente nel chiamare oggettivamente le cose col loro nome. Per esemplificare: quando Gesù dimostra misericordia per l’adultera, impedendo che venga condannata, non giunge alla conclusione in seguito a un patteggiamento in merito al peccato della donna. Il suo perdono è un dono totalmente gratuito, che non implica alcuna giustificazione del peccato. Tant’è che, con amore, la guarda e le dice: «Vai, e non peccare più».

La misericordia viene meno quando vince il formalismo e il moralismo. Vittoria che ha due facce: da una parte non ammettere che il peccato sia compiuto, e quindi scandalizzarsi e condannare senza pietà chi se ne macchia; dall’altra, sempre e ugualmente un non ammettere che il peccato sia compiuto, e quindi giustificarlo dicendo che in fondo peccato non è. Scandalo e giustificazione appartengono alla stessa dinamica culturale, propria di chi non tollera che l’uomo cada, che non sia capace con le sue forze di vivere con coerenza. Non dimentichiamo che, come ha ricordato l’editorialista del New York Times Ross Douthat proprio in questi giorni, «in the New Testament the Pharisees allowed divorce; it was Jesus who rejected it». Vallo a spiegare a chi contrappone dottrina a misericordia…

Parlare dei fatti della Chiesa è insomma abbastanza complesso, e richiede una predisposizione al libero approfondimento della materia che raramente vediamo nei giornalisti, soprattutto di casa nostra. Se La Repubblica spara nei titoli il grande cambiamento con il «sì» alla comunione ai divorziati risposati, e poi Scalfari nella sua articolessa domenicale dice che in fondo la Relatio finalis è una vittoria ai punti dei tradizionalisti, vuol dire proprio che la confusione è totale. Confusione anche voluta, certo, non solo dovuta a mancata comprensione dei fatti. C’è evidentemente malafede in tutto questo. Vale pertanto il consiglio da cui siamo partiti: meglio forse non trattare nemmeno di cose di Chiesa sui giornali. O evitare almeno di farlo in prima pagina, dove si ha necessità di titolare banalizzando. I giornali non lo faranno, e andranno avanti come sempre hanno fatto. I lettori, almeno, sono avvisati.

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